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A PERFECT LIE: Cap. 3

La casa Nera

1
Primo impatto


Quella mattina Ruby si svegliò molto presto. Si vestì con i suoi abiti asciutti e puliti, riponendo sulla sedia della camera da letto quelli che le aveva prestato Diana, poi dalla borsa prese il cellulare facendo partire una chiamata.
Diana era appoggiata con una spalla sul bordo della porta aperta, con indosso solo una maglietta oversize, intenta ad osservarla.
“Hai fretta?”
“Devo andare in ufficio.”
“Non vuoi che ti accompagni?”
“Non è necessario.”
“Invece lo è…mi dispiace per stanotte…”
“Sul serio?” domandò ironica mentre gesticolando con la mano invitò Diana a zittirsi.
“Sì, probabilmente arriverò con qualche minuto di ritardo. A dopo.” la telefonata fu brevissima.
“Decisamente non vuoi che ti accompagni.”
“No. Decisamente, no.”
“Chi hai chiamato?”
“Non deve interessarti.”
All’ultima e decisiva negazione, Diana allungò il braccio all’estremità della porta per cercare di non farla uscire.
“Se vuoi…posso rimediare…”
Per un momento si guardarono negli occhi, con la stessa intensità della notte prima, e per entrambe fu come se si conoscessero da sempre; quella familiarità tipica di chi sente nell’altro un porto sicuro. Poi, il suono di un clacson per strada ruppe quella specie di magia.
“Ma per chi mi hai presa? Lasciami passare!”
Questa volta si rese conto di quanto fosse inutile insistere, così cercò di tergiversare.
“Posso chiamarti più tardi?”
“Se è per le altre cose che vuoi mostrarmi, sì. Altrimenti, no.”
“Come sei categorica.”
“Devo andare. Ci sentiamo.”
Ruby lanciò uno sguardo di completa disapprovazione a Diana, poi, senza aggiungere altro, uscì dall’appartamento sbattendo la porta.
Si guardò indietro per un momento, come se desiderasse che Diana in qualche modo riaprisse quella porta per fermarla e farla rientrare. Ma questo suo desiderio non venne esaudito, così si diresse direttamente verso l’uscita che portava in strada.
Attese giusto qualche minuto, quando finalmente arrivò un taxi, e senza quasi nemmeno aspettare che l’auto si fermasse completamente, salì, con l’espressione stupita e buffa del conducente.
“Abbiamo fretta, eh?”
“Già. Può portarmi alla sede del Times? Grazie.”
Il tassista annuì, ma poi spense il motore.
“Beh? Qualcosa non va?” Ruby si rivolse all’uomo guardandolo negli occhi attraverso lo specchietto retrovisore.
“Credo che lei debba scendere, signora.”
“Come?” Ruby non sapeva se ridere o arrabbiarsi. Era decisamente stupita.
“C’è una persona che mi sta facendo cenno, credo che lei la conosca.”
“Non mi interessa! Metta in moto per favore.”
“Io fossi in lei scenderei, le altre mica le inseguiva.”
“Le…altre…?” Ruby era molto confusa.
“Lei la conosce…?”
“Sì…beh…diciamo di sì. Se vuole scendere…”
Ruby guardò attraverso il finestrino Diana che la stava aspettando sulle scale dell’entrata di casa, sorridendo. Poi, sospirando, aprì la portiera e scese andandole incontro.
“Quindi?”
“Quindi ti accompagno io. Anzi, guida tu!” e le lanciò le chiavi dell’auto.

Si trovavano sulla West 4th street, e per una parte del tragitto si ignorarono completamente.
Diana spesso guardava Ruby con insistenza, mentre Ruby faceva finta di non sentire lo sguardo che invece pesava su di lei finché, stufa di provare imbarazzo, decise di fare la mossa più ovvia per stemperare il disagio che stava provando, accendendo la radio.
Azione del tutto inutile, poiché Diana la spense immediatamente. Questo fece sì che Ruby si voltasse verso di lei completamente contrariata.
“Quella canzone mi piaceva!”
“Immagino…” rispose in modo ironico.
“Sei sfiancante, Diana…”
“No, voglio solo parlare con te.”
“Non intendo ascoltarti. Voglio solo arrivare in ufficio. Per colpa tua farò più tardi di quel che pensavo.”
“Essendo in mia compagnia crederanno che ti ho dato delle informazioni interessanti. Non ti faranno storie.”
“Tu dici, eh?” Ma cos’è questo rumore?” la macchina emetteva un ronzio che via via si faceva sempre più intenso e fastidioso.
“Non saprei. L’auto non è mia.” Ruby la guardò male.
“Nel senso che è del dipartimento. Non ti agitare.”
Ruby cominciò a toccare i vari congegni dell’auto, mettendo anche in azione il condizionatore per capire da dove potesse provenire il rumore.
“Sai, anche mio padre faceva come te. Immancabilmente rompeva tutto.”
“Fingo di non averti sentita.” intanto continuava a toccare e schiacciare i vari pulsanti e manopole sotto lo sguardo infastidito di Diana.
“Credo dovremmo fermarci da un meccanico.” disse Diana mentre distrattamente guardava fuori dal finestrino. Si accorse che le auto a fianco sfrecciavano velocissime.
“Scusa ma… a quanto stai andando?”
“Circa quaranta miglia.”
“Ma non avevi fretta di arrivare in ufficio?”
“Il punto è che questo catorcio non va più veloce di così!” Ruby iniziava ad essere seccata.
“C’è un parcheggio sotterraneo qui vicino, lasciamo la macchina e poi chiamerò un collega” Diana mise una mano sopra a quella di Ruby, mentre la stessa stava sterzando.
Il tocco la fece sussultare.
“Sei nervosa?” Diana non mollava la presa.
“Tu che dici?” Ruby sgomitò per allontanare il contatto insistente di Diana, che però non accettò assolutamente di buon grado, tentando nuovamente un contatto fisico questa volta più audace, sfiorandole l’inguine e cercando di sbottonarle i pantaloni.
Ruby era incredula per quel tipo di azzardo, e fu proprio quella parte di lei che in fondo gradiva quelle particolari attenzioni a farle perdere il controllo della macchina proprio mentre stava scendendo rapidamente nel parcheggio, accorgendosi però, che qualcosa stava andando storto.
“Cazzo!! I freni non funzionano!”
Il panico e la fretta le fecero cercare a tentoni il freno a mano, ma Diana la fermò con decisione.
“Cerca di non perdere la testa e fai quello che ti dico!” il sangue freddo di Diana era invidiabile.
“Lascia lentamente l’acceleratore e scala le marce!”
Ruby eseguì senza fiatare, finché la macchina rallentò il giusto da poter consentire in quel momento a Diana di azionare il freno a mano.
La vettura si fermò bruscamente a pochi cm da una colonna di cemento armato. Ma non era finita. Lo scossone fece notare a Diana qualcosa di insolito uscire dal cruscotto: un filo sottile e anomalo, quasi nascosto, che non faceva pensare potesse essere parte della vettura.
Ruby guardò incuriosita Diana che sembrava essere piuttosto sicura del fatto suo.
“C’è qualcosa di strano…”
“Cosa intendi?”
Il filo era connesso ad un dispositivo camuffato tra i cavi che non lasciava più dubbi su ciò che sarebbe successo di lì a poco.
“Usciamo da questa trappola immediatamente! C’è una bomba qui dentro!”
Mentre Ruby non ebbe alcuna difficoltà ad aprire la portiera, Diana non riuscì a scendere perché la sua era intoppata, dovendo perdere tempo prezioso uscendo dalla parte del conducente.
“Corri, cazzo! Cosa fai ancora qui?”
“Ti aiuto a uscire, stupida!”
Ruby tirò per le braccia Diana la quale perse l’equilibrio dopo essere balzata fuori dalla vettura, finendole addosso.
Non ebbero il tempo nemmeno di guardarsi che, un leggero fumo prima, e una serie di scintille poi, si trasformarono in un forte boato, mentre l’auto era andata completamente in fiamme e alcuni pezzi della carrozzeria schizzarono un po’ dappertutto.


Le due donne persero i sensi per qualche minuto.
Il fumo e l’odore acre del fuoco si era sparso per tutta la parte sottostante dell’edificio.
La prima a rinvenire fu Diana, che vedendo l’altra ancora stesa a terra, supina, si precipitò verso di lei nonostante non si fosse ripresa ancora del tutto dall’esplosione.
Assicurandosi che respirasse, cercò di destarla scuotendola lievemente.
Non ricevendo segnali positivi, si fece prendere dal panico, urlando per farsi sentire il più possibile.
“Ruby, svegliati…cazzo, svegliati!” si guardò intorno disperata per vedere se fossero arrivati i soccorsi e per cercare il cellulare nella tasca della giacca, poi sentì una mano sulla sua.
“Diana, che cosa…? Ruby era in evidente stato confusionale.
“Riesci ad alzarti?” non ricevendo nessuna risposta affermativa, la aiutò a mettersi quanto meno seduta, e accorgendosi che la donna stava perdendo sangue dal braccio, strappò un lembo della propria camicia per tamponare la ferita e medicarla momentaneamente.
“Adesso appoggiati su di me, dobbiamo andarcene immediatamente da qui!”
Il fumo stava aumentando di intensità, e nonostante la visuale fosse molto rada, cercarono l’uscita attraverso il labirinto di macchine e detriti.
Una volta evacuate, si trovarono davanti i soccorsi e un paio di squadre della polizia che riconobbero immediatamente Diana di cui un poliziotto in particolare, che si avvicinò a lei.
“Tutto mi aspettavo tranne che vedere te. Che cazzo è successo?”
“Qualcuno ha messo una bomba all’interno della macchina, e credo anche di sapere chi è stato”
“Ma chi? Quel ragazzino? Andiamo, è un incapace!”
“Non è un incapace, Steve! Non iniziare a farmi passare per visionaria!”
“Tu sei convinta sia stato lui, ma…”
“Non sono convinta, cazzo! Senti, basta! Mi faccio accompagnare in centrale da una delle volanti e poi lascerò la mia deposizione”.
“Non è necessario, riprenditi e manda tutto via mail. Ci penserò io.”
Mentre parlavano, Steve fece segno con la testa accennando un risolino nella direzione di Ruby, che si stava facendo medicare la ferita da un operatore dell’ambulanza,
“E quella chi è?”
“Non ti riguarda”
“Una tua nuova “amica”?
“Dovresti imparare a farti gli affari tuoi almeno una volta nella vita.”
“L’altra l’hai già scaricata?
“Dì un po’, Steve, come sta tua moglie?” questa volta fu Diana a sorridere sarcastica, ottenendo un silenzioso imbarazzo da parte del poliziotto.
Nel mentre Ruby si stava sentendo stranamente osservata e, senza dare nell’occhio, si avvicinò a Diana nel modo più naturale possibile.
“Sai che tutto questo non è stato un incidente, vero?” Diana annuì.
“Comunque, mentre mi stavano medicando, sul marciapiede di fronte ho visto un tizio piuttosto giovane fermo su una moto che ti stava osservando…”
“È ancora qui?” Diana si stava visibilmente agitando.
“Non lo so, non credo…”
“Andiamo!”
2
Ragazzi di strada


“Come va il braccio? Tutto bene? Prima sanguinavi molto.” Diana era preoccupata per la donna, ma visibilmente ansiosa per quello che le aveva detto prima.
“Sì, ma non mi hai ancora detto chi è questo Lucas Walsh.”
“È il pezzo di merda che ha ucciso mia figlia. E non chiedermi se sono sicura che sia stato lui, perché questa domanda mi fa solo saltare i nervi. Dove hai detto di averlo visto?”
“Laggiù.” Ruby fece cenno in una direzione dove una strada stretta tra una fila di palazzi vecchi, sembrava attraversare l’intero quartiere nella più totale oscurità.
“Se non te la senti, vado da sola.”
“Ma no, figurati, è il mio hobby preferito infilarmi nelle stradine piene di insidie del Bronx!” Diana accennò un sorriso nonostante tutto, finché entrambe si addentrarono in quella stradina.


Diana rimase a lungo in silenzio, troppo intenta a guardarsi intorno all’interno di quella pesante penombra, cercando qualsiasi indizio che potesse portarla dal suo uomo, finché da un vicolo ancora più stretto, non si sentirono distintamente le voci di due ragazzi.
“Con questa qui ci facciamo un bel gruzzolo da smezzare con Rey e Vi. Che dici?”
“Sarà immatricolata, lascia perdere, Alec!”
“Non dire cazzate, Cat! Mica l’abbiamo trovata nei quartieri alti di Manhattan!” replicò l’altro ragazzino.
Diana cercò il più possibile di restare mimetizzata nell’ombra, tanto da riuscire a vedere abbastanza bene che due ragazzi sulla ventina stavano discutendo davanti a una motocicletta. Non vedendoci più dalla rabbia, associò subito il mezzo a quello di Lucas Walsh, decidendo di farsi avanti, ma Ruby la afferrò per un polso.
“Che cosa credi di fare? Saranno sicuramente armati.”
“Voglio solo parlargli. Lasciami andare!” Diana non si rese conto di avere alzato la voce, mettendo in guardia i ragazzi davanti a lei: uno biondo dai tratti somatici molto gentili, e uno moro con la pelle leggermente più scura dell’altro.
Quest’ultimo scattò immediatamente, mentre il biondo rimase fermo in tono di sfida, aspettando che Diana arrivasse davanti a lui.
“Che cazzo fai, Alec? Muoviti! Andiamo via!”



“Ragazzi! Fermatevi! Polizia!”
I due ragazzini continuavano a correre, ma Diana sapeva tenergli testa.
“Perché cazzo stai scappando, Cat?”
“Non voglio casini! Non oggi!”
“Fottiti, Luis!” il biondo si fermò di scatto, poi si voltò totalmente e rimase fermo, con un pugno chiuso e con l’altra mano dietro la schiena, pronto ad usare la pistola e ad aspettare che Diana lo raggiungesse.
Il moro fece solo pochi passi più avanti dell’altro, per poi fermarsi e mettersi al suo fianco.
“Così mi piaci!” Alec sorrise orgoglioso.
“Non faremo proprio niente. Se le cose si metteranno male, sarà peggio per lei…ma non mi sembra minacciosa…”
“Sei il solito. Devi sempre fare quello diverso da tutti! Non posso credere che ti sto dando retta!”
Diana raggiunse i due ragazzi. Cercò di riprendere fiato.
“Perché non vi siete fermati subito? Devo solo farvi un paio di domande, nulla di più.”
“Quelle come te non fanno domande.” rispose Alec con decisione.
“Hai ragione, e in altre circostanze sarebbe così ma…”
“Ma?” Incalzò Cat.
“Un momento, chi cazzo è quell’altra che sta arrivando?” Alec, con la coda dell’occhio, vide arrivare Ruby e questa volta era deciso ad usare la pistola ma, Cat, conoscendo il suo amico, gli strinse il polso.
“Andiamocene, cosa credi che possano dirti questi due balordi?”
“Per favore, non ti immischiare, ok?”
“Sai benissimo che Noa non frequentava questa gente! Non capisco cosa vai cercando!”
Noa…?” Cat sussurrò quasi con voce strozzata il nome della ragazza.
“La conosci?” Diana sgranò i suoi grandi occhi scuri, prese per le spalle Cat dandogli due scossoni, mentre il ragazzo sembrava essersi ammutolito. Poi, si riprese.
“No, io…non…” per qualche secondo si scontrò con lo sguardo di disapprovazione di Alec, ma decise comunque di parlare.
“Io ti dico quello che so, ma poi devi scordarti di averci visti…”
“Ma senti questo!” Irruppe Ruby, quasi schernendolo, ricevendo a sua volta un’occhiataccia da Diana.
“Non mi occupo del vostro quartiere, e non ho motivo di indagare su di voi, ma se avete visto o sentito qualcosa, vi prego di dirmelo…”
“Vi prego... Noa è…era…mia figlia.”
I due ragazzi si guardarono, poi, Cat, decise di fare il primo passo con il chiaro disappunto di Alec dipinto sul viso.
“Ecco, io…noi…non la conosciamo, ma per cose nostre stavamo a Mott Haven…”
“Cazzo, Cat! Lo vuoi capire che questa qui ci vuole fregare?”
Senza dare retta all’amico, proseguì.
“…ho visto un paio di tizi allontanarsi…quello più grosso aveva sulle spalle una ragazza…credo fosse troppo ubriaca o troppo drogata per muoversi. O forse…”
“Forse?” incalzò Diana.
“…forse era già morta, perché il tizio che stava a fianco di quello più grande farfugliava piangendo…e ho sentito che pronunciava quel nome particolare…Noa”
“Dove l’avete vista esattamente?” gli occhi di Diana erano disperati e Cat lo percepì.
“Vicino alla metro nord di quella zona, a mezz’ora da qui, c’è una casa abbandonata. Da tutti quelli del posto viene chiamata La casa nera.”
“La casa nera?” Ruby era piuttosto perplessa.
“Sì, la chiamano così perché da lì provengono rumori e versi sinistri.” intervenne Alec che, vedendo l’amico seriamente interessato ad aiutare Diana, provò ad essere leggermente indulgente.
“Anche se la chiamano così, in realtà non è fatiscente come le altre che ci sono intorno, anzi, è molto bella. Sicuramente appartiene a qualche riccone che finge sia dismessa…capito, no?” proseguì Cat.
“D’accordo, vi ringrazio. Potete andare.”
“Non devi certo dircelo tu se possiamo andarcene” Alec era piuttosto seccato dalla risposta autorevole di Diana.
“Spero che in qualche modo ti abbiamo potuto aiutare.” Cat fece un cenno all’amico. Con passo veloce, e nel giro di pochi secondi, scomparvero totalmente nella semioscurità del vicolo.
“Di questa ora cosa ne facciamo?” Ruby salì sulla sella della moto come se sapesse guidarla.
“Scendi da lì!” Diana era infastidita dal gesto un po’ superficiale della giornalista, poi prese il cellulare e chiamò la centrale di Polizia.
3
L’odore che ha la morte


Lucas era un solitario, ma non per sua scelta; la vita più di una volta lo aveva messo alle strette.
I suoi unici “amici”, col tempo, erano diventati spacciatori, protettori e prostitute. Gente che voleva sempre qualcosa da lui; che “lavorava” con lui o per lui.
Liam rappresentava quel fratello che aveva sempre desiderato: un posto sicuro dove rifugiarsi quando tutto intorno sembrava diventare una spirale soffocante.
Nulla attraversava più la sensibilità di Lucas, se non quel ragazzino gracile e fragile, forse perché un po’ rivedeva ciò che un tempo era stato lui stesso.
Da bambino, la condizione di figlio unico lo faceva sentire diverso rispetto ai suoi compagni di scuola che, contrariamente, avevano fratelli o sorelle.
Lucas era timido e impacciato con chiunque, non aveva un compagno di giochi, un complice o un confidente.
Quando i suoi genitori litigavano, chiudeva la porta della sua camera, si portava le mani alle orecchie immaginando di avere un’altra esistenza.
Benché non gli mancasse nulla sul piano materiale, gli mancava tutto su quello affettivo.
Crescendo, e diventando sempre più cosciente di ciò che lo circondava, spesso gli capitava di vedere rincasare il padre sporco di sangue, e quando Lucas gli correva incontro per abbraccialo, l’uomo lo scansava come fosse stato un estraneo.
A nulla serviva cercare consolazione nella madre che, dopo aver trascorso anni tra le lacrime, aveva ben pensato di cambiare vita uscendo a tarda notte vestita in modo provocante per incontrarsi con estranei, per poi in seguito scoprire dalle voci del personale pettegolo di casa, che erano i suoi innumerevoli amanti.
Questa era una delle tante scene che Lucas aveva visto da bambino e che si reiterarono negli anni fino al giorno in cui, poco più che adolescente, vide morire Grace, la madre.
Fu proprio Lucas a trovarla morta.
La donna giaceva riversa sul letto della lussuosa stanza, e ciò che il ragazzo percepì ancor prima di vederla, era l’odore nauseabondo e amaro di sigarette spente da ore; eppure non c’era nessun posacenere.
Avvicinandosi, si rese subito conto del pallore della pelle della madre, gli occhi chiusi e una mano sul ventre che stringeva la stoffa della vestaglia di seta, come se la donna avesse provato un intenso dolore prima di morire.
Non aveva fatto in tempo a pensare di provare a soccorrerla che, nella stanza, di soppiatto, entrarono tre energumeni a seguito del padre, il quale si era fiondato davanti al figlio prendendolo a schiaffi.
“E ringraziami.”.
I tre bestioni avvolsero il corpo di Grace nelle lenzuola e la portarono via sotto gli occhi di Lucas, dolorante sul volto e nel cuore.
In quel momento il ragazzo vide scorrere davanti a sé molti dei ricordi che conservava della propria madre, come se prima di quell’istante se ne fosse completamente dimenticato.
Grace era una donna che non sorrideva quasi mai e, quando succedeva, ci pensava il marito a rimetterla al suo posto, facendole notare con il suo comportamento narcisista e strafottente, quanto fosse completamente sbagliato il loro rapporto. Quanto fosse sbagliata lei.
Lucas non riusciva a trovare traccia nella propria mente, di episodi della sua vita insieme ai genitori, che potessero ricondurre a dei momenti felici, o quantomeno sereni.
Ricordava solo litigi dietro la porta della camera da letto, il padre che usciva sbattendola, e la madre che lo chiamava a sé per abbracciarlo. Ma era un abbraccio che non durava mai abbastanza, perché subito dopo la donna si attaccava ad alcool e sigarette, dimenticandosi completamente di lui.
Lucas però la amava, come un figlio ama e giustifica un genitore che la vita, per mille ragioni, ha messo con le spalle al muro.
Quando la madre morì, anche le sue spalle si ritrovarono attaccate a quel muro.
4
11 Settembre


Arrivate entrambe a casa di Diana, il portone non voleva saperne di aprirsi.
“Cazzo, è da un anno che abbiamo questo problema e ancora l’amministratore non si decide a cambiare questa maledetta serratura!”
“Aspetta, ci provo io.” Ruby spostò delicatamente la mano di Diana, che di rimando accarezzò la sua, lasciando cadere a terra il mazzo di chiavi, ma ad entrambe sembrava non importare poiché le loro mani dal semplice sfiorarsi si incastrarono l’una nell’altra.
“Diana…” ogni volta che i loro sguardi si incrociavano era come se un incantesimo le catapultasse altrove, per poi improvvisamente farle ricadere nella realtà.
“Lascia stare.” Diana si chinò, raccolse il mazzo di chiavi, e questa volta il portone si aprì senza problemi.

Entrate nell’appartamento, Diana accese uno delle lampade regolandone la luce soffusa, lanciò borsa e soprabito sul divano, poi si sedette e tolse le scarpe, stendendosi. Ruby, dietro di lei chiuse piano la porta, appoggiandosi di schiena. Sapeva che a breve sarebbe arrivata una sorta di lamentela.
“Tu…tu non sei attratta da me, non è così?” Diana si passò una mano sulle tempie come se le stesse arrivando un forte mal di testa.
“No. Non è vero. E poi oggi è stata una giornata fin troppo pesante per parlare di queste cose.” Ruby stava osservando il pavimento e le fughe tra una mattonella e l’altra nel tentativo di sottrarsi allo sguardo di lei.
“Perché mi frequenti se non mi vuoi?”
“Tu desideri solo colmare un vuoto.”
“Davvero credi che tu possa rimpiazzare mia figlia? E guardami quando ti parlo!”
“Sì. Lo credo.” Ruby decise di affrontare Diana, avvicinandosi.
“Un figlio non può essere sostituito con nessun altro al mondo. Lo sai questo? Non credo, visto che non hai figli.” Diana aggrottò la fronte, e due leggeri solchi verticali tra le sopracciglia la facevano sembrare più matura della sua età.
“Non ho figli ma sono stata figlia. Nemmeno un genitore può essere sostituito.”
“Perfetto, allora di cosa stiamo parlando, Ruby?”
Alla fine si decise a sedersi accanto a Diana, sprofondando pesantemente stanca tra i cuscini.
“Tua madre ti aveva sostituita, vero?”
“Scusa?” Ruby era confusa dalla domanda della donna.
“Quando tuo padre è morto, e lei si è rifatta una vita, ti sei sentita sostituta, non è così?”
“Ma tu come cazzo…?”
“Anche io mi sono informata su di te.”
Diana si alzò, e sotto gli occhi increduli della giornalista, prese una cartelletta verde incastrata tra alcuni volumi di una delle piccole librerie del soggiorno lanciandola tra le gambe di Ruby.
“Ma la differenza tra me e te…” proseguì Diana “è che io sono spinta da un reale interesse nei tuoi riguardi, tu solo per scrivere un ottimo articolo.”
“Che grandissima figlia di…”
Ruby, incredula e stordita, ebbe la consapevolezza di essere stata violata nella sua sfera privata, comprendendo per la prima volta cosa significasse non essere quella che gli articoli li scriveva, ma li subiva.



Charles Evans era un poliziotto che cercava solo di fare il suo lavoro, quando l’11 settembre del 2001, nel tentativo di mantenere l’ordine, la sua Smith & Wesson colpì accidentalmente una donna incinta intenta a salvarsi la vita.
Nella confusione, pensava che nessuno lo avesse visto, non considerando che il suo compagno di turno, Idan Bitton, si trovava proprio dietro di lui.
La sua coscienza non gli permise più di svolgere il suo lavoro come prima: era spesso assente, mentre in servizio il suo alito puzzava d’alcool.
Dopo qualche mese Charles venne congedato, e le sue giornate trascorsero pigre tra una bottiglia di Vodka e decine di lattine di birra. Sua moglie Ava non riusciva più a stargli dietro, non sopportava più di vederlo oziare sul divano tra il disordine e il cattivo odore. Inizialmente tornava a casa solo per preparare pranzo e cena alla figlia, poi i suoi rientri divennero oltremodo sporadici: Ruby dovette imparare da sé a cucinare e fare il bucato, perché la madre via via si dileguò.
Ma non fu l’unica ad andarsene da quella casa. Presto tutta la famiglia Evans smise di esistere.
Erano le 19 quando Ruby tornò da scuola: una comune serata di autunno inoltrato.
Gli interruttori in casa erano tutti spenti. L’appartamento leggermente illuminato dai flebili raggi di luce provenienti dai lampioni sulla strada.
Nessun rumore. Solo il cigolio della porta d’ingresso che si chiudeva alle sue spalle.
“Papà…?”
Ruby provò ad accendere l’interruttore del soggiorno, ma non si accese.
Si ricordò che proprio la settimana precedente, nella buca delle lettere, l’azienda elettrica aveva mandato l’ennesimo sollecito di mancato pagamento.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca e cercò di fare luce con il display, camminando a tentoni lungo il corridoio che conduceva alle camere da letto.
“Papà, stai dormendo?”
La mano esitante di Ruby aprì leggermente la porta della stanza, fino a spalancarla del tutto, mentre il cellulare nell’altra mano illuminò il centro della camera.
Un urlo strozzato dal pianto di Ruby si inoltrò per tutto il palazzo.



“Mi rendo conto che non è facile per una ragazza così giovane scoprire il cadavere del proprio genitore”
“Perché mi fai questo, Diana…?” la voce di Ruby era quasi tremante.
Com’è stato rinvenuto tuo padre?”
“Non… non è scritto nel tuo dossier? Perché lo devi chiedere proprio a me?”
“Vorrei me lo dicessi tu.”
Ruby non rispose.
“D’accordo. Qui dice: «Charles Evans. Maschio di 49 anni trovato appeso a una corda fatta di fili elettrici fissata al gancio che regge il lampadario della camera da letto. Di fianco all’uomo una scala a forbice aperta utilizzata presumibilmente per la preparazione dell’evento…» “
“Smettila…”
«L'azione violenta dei fili elettrici ha provocato una la frattura netta dell'osso ioide»
Ruby abbassò il capo con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Sembrava sconfitta.
“Come ti sei sentita quando lo hai trovato? Qui c’è scritto che la figlia (tu) era stata trovata in grave stato di shock…”
La donna adesso iniziava a manifestare più esplicitamente del disagio intrecciando le proprie dita delle mani, come se stesse pulendo le medesime da qualcosa che le aveva sporcate.
Diana notò la cosa, ma proseguì ugualmente sfogliando i documenti con attenzione.
“Dopo l’episodio, fino alla maggiore età, sei stata in cura dal Dr. Parker e…”
“Avrei voluto vedere te…”
“Scusa?” Diana fece finta di non capire.
“…trovarti davanti agli occhi tuo padre impiccato, completamente cianotico e…”
“Nella mia carriera ne ho visti tanti. Ma dimentichi che io ho visto mia figlia”
“Ma io avevo 18 anni!” sbraitò.
“Non resisti. Vero, Ruby?”
La giornalista aveva ricominciato a gesticolare nervosamente, poi si alzò dal divano, corse in bagno sbattendo la porta per poi fiondare le mani insaponate sotto l’acqua corrente del rubinetto sfregandole fino a farle sanguinare.
Smorfie di dolore, lacrime e singhiozzi, non cessarono fino a quando Diana non spalancò la porta guardando Ruby che, a sua volta, ricambiò lo sguardo con il trucco nero che colava ai lati degli occhi insieme alle lacrime.
Diana non disse nulla. Abbracciò da dietro la donna, portando le sue braccia davanti e raccogliendo quelle di lei, sporcandosi i polsini della camicia bianca di sangue.
Rimasero in quella posizione fino a quando Ruby, alzando il viso verso lo specchio e vedendo quella scena riflessa, cercò di divincolarsi, ma Diana non le permise di staccarsi da lei, finché non si arrese. Riprese fiato trovandosi di fronte alla donna che la stava guardando con dolcezza e con gli occhi che trattenevano le lacrime.
Diana provò un’infinita tenerezza nei confronti di Ruby, e lasciandosi trasportare dal sentimento la strinse forte a sé, non immaginando minimamente che sarebbe stata ricambiata finché non sentì le mani di lei dietro la schiena, stringerla, e il viso appoggiato al suo seno. Poteva sentire il calore del suo respiro sulla pelle.
Diana chiuse gli occhi, inarcando leggermente il collo all’indietro, lasciandosi andare in quell’abbraccio lungo e disperato che sapeva di amore, di conforto e di consolazione. Caldo e famigliare. Pulsante.
“Perché…perché, Diana?
“È il peso che ti porti dentro…” Diana prese il viso di Ruby tra le mani. Erano entrambe reduci dalle lacrime.
“…io conosco quel peso e l’ho sentito…non devi scappare da me, io ti sento…” la strinse ancora a sé.
Ruby non disse altro, le parole di Diana e il calore del suo abbraccio la facevano sentire al sicuro. Al tempo stesso capì che le intenzioni di Diana non erano finalizzate a farle del male, ma di fare uscire il dolore e il senso di colpa che la opprimevano da quando era ragazza.
Ruby non era mai riuscita a piangere dopo la morte del padre, né a farlo in seguito. Credeva che indossando la maschera della persona forte e senza paura, prima o poi ne sarebbe uscita, ma il seme del dolore era germogliato fino a crescere a dismisura invadendo anche la sua vita da donna adulta.
Diana questo lo sapeva, perché quello stesso seme stava crescendo in lei attraverso la morte di Noa.

CONTINUA…

A PERFECT LIE: Cap. 2

VIDEO PROMO:

Il cacciatore di Manhattan

 1 Reminiscenza


Arrivo all’ingresso di Central Park, pensando di trovarla lì, invece la pazza a quanto pare si è addentrata oltre. Poco dopo, infatti, la trovo al Gapstowe Bridge. 
Non mi è mai capitato di venire qui la mattina così presto, infatti non c’è anima viva. Tranne la sua. Guarda giù dal ponte, come in procinto di buttarsi; se l’altezza fosse stata degna, probabilmente lo avrebbe fatto. O mi sarei uccisa io nel tentativo di salvarla. Percepisco da lontano la sua assenza mentale. Non so se la avverto così perché la conosco bene, o perché quella è l’impressione che in effetti può dare a chiunque.
“Dov’è la macchina?”
“Siamo arrivate a questo? Nemmeno mi chiedi come sto…”
“Ti sei mai chiesta come sono stata io in questo ultimo anno e mezzo?”
“Hai ragione…perdonami…” ha pianto.
Gli occhi rossi, il trucco sbavato, la camicia sporca di non si sa bene cosa, non sono elementi sufficienti per farmi capire l’accaduto.
“Ad ogni modo, sono qui…” non posso fare a meno di farle sentire la mia vicinanza, dopotutto qualcosa ancora ci lega. O forse no. Perché la mia frase è passata del tutto inosservata.
“Non ti fa bene restare in questo posto, dobbiamo tornare a casa, Diana…”
“Io non posso dimenticare. Non voglio dimenticare…tu non l’hai vista…” guarda nuovamente sotto al ponte, come se il corpo di Noa fosse ancora lì. 
No, io non l’avevo vista, ma sapevo in che condizioni venne trovata: dopo estenuanti ricerche durate un paio di mesi, la ragazza fu ripescata nel lago, sotto al Gapstowe Bridge. Ed era stata proprio Diana a ritrovarla, con i polsi legati e la bocca tappata con lo scotch. Colpita con arma da fuoco al petto, ma la causa della morte dichiarata fu overdose da cocaina. 
Me lo aveva raccontato lei, poco dopo la nostra conoscenza. Le mie ricerche avevano portato a dei risultati scarsi, perché come pensai, la polizia omise i particolari. I vari articoli scritti dai colleghi, riportavano solo che la vittima era una parente stretta di Diana…ma non avrei mai pensato si trattasse di sua figlia.
Mi avvicino a lei più di quanto ho fatto di mia spontanea iniziativa negli ultimi tempi. Anzi, non ricordo l’ultima volta in cui l’ho fatto davvero, così decido di farmi coraggio, le metto un braccio intorno alle spalle e lei di riflesso si gira. Mi abbraccia. Solleva il viso e mi guarda. I suoi occhi sono splendidi anche se tristi e pieni di lacrime. Vorrebbe dirmi qualcosa, ma non lo fa. Vorrei baciarla, ma non lo faccio. Lei capisce che non lo farò e abbassa lo sguardo. Così le asciugo le guance con i pollici e lei appoggia il capo sul mio petto.
“Coraggio, andiamo a recuperare la macchina”

L’auto di Diana si trova sulla quinta strada, in prossimità di uno dei semafori, accostata sul marciapiede.
Proprio mentre cerco di capire cos’è successo, vedo arrivare la polizia.
Dalla volante scendono dei tizi davvero strani per essere dei poliziotti: uno grande e grosso con un bel pancione da birra, e altri due non molto alti ma robusti, di cui uno con un ciuffo biondo. 
“È vostra?”
“Sì”
“Ci è stata segnalata da alcuni negozianti, ma nessuno ha saputo dirci cos’è successo”
“Ecco, io non…” il pancione si accorge di Diana. Noto che la guarda con curiosità. 
“Ma lei è…era il detective Bitton! Che cos’ha combinato? Abbiamo alzato il gomito un’altra volta, eh?” probabilmente se alla frase infelice non avesse aggiunto una risata cretina, Diana non se la sarebbe nemmeno presa. 
“Figlio di puttana!” non l’ho mai vista sputare in faccia a qualcuno, e il pancione non la prende molto bene perché cerca subito di avventarsi su di lei, ma sia io che gli altri due poliziotti ci mettiamo in mezzo. 
“Chi cazzo ti credi di essere brutto stronzo?”
“Ringrazia che sei una donna e che non sei sola” il pancione si pulisce il viso dallo sputo che gli sta colando ad un lato del naso. 
“Dovevo farti licenziare quando ancora…”
“Ma stai zitta, Bitton!” il pancione proprio non vuole saperne di smetterla, così decido di intervenire.
“Ok, adesso basta. Siamo venute qui per recuperare la macchina, e andarcene.”
“E in che modo pensate di farlo?” Il poliziotto biondo indica muovendo un piede in direzione di quelle che vedo essere le ruote anteriori bucate. 
“E c’è qualcosa che non va anche sul cofano” aggiunge dopo con un sorrisino scemo.
“Ma che cazzo è successo, Diana?” non riesco proprio a ricondurne le dinamiche. Mi aveva parlato di un incidente, ma tutto quello che vedevo era confuso e assurdo.
Le ruote bucate. Ammaccature pesanti sulla parte alta del cofano. Ma nulla che facesse pensare che Diana avesse perso il controllo della macchina. Sembrava che tutto fosse avvenuto “dopo” e non “durante”.
“Io…non…non mi ricordo…”
“Vi chiamo un carro attrezzi” il biondo si allontana col cellulare in mano, con l’altra, invece, dà un leggero pugno amichevole attirando l’attenzione del pancione, che ancora guarda Diana. Poi si allontanano tutti e tre, e una volta raggiunta una distanza a prova di udito indiscreto, mi decido a parlarle.
“Mi vuoi spiegare?” non dice una parola, va ad aprire il bagagliaio e tira fuori una spranga di ferro.
“Sono stata io a colpire la macchina”
“Tu…cosa? E da quando vai in giro con questa roba?”
“Da quando non ho più una pistola”
“Che cazzo significa? Mi stai prendendo per il culo? Non te ne aveva appena recuperata una Steve?”
Steve è uno dei pochi agenti con cui Diana sia rimasta in buoni rapporti dopo essere stata destituita dalla polizia.
“Allora?!?”
“Io, ecco…credo di averla persa! Perché cazzo mi guardi così?” so che si mette sulla difensiva quando sta per raccontare delle balle. E questo è uno di quei momenti. 
“Cazzate! Dimmi che cosa hai fatto di quella cazzo di pistola!” senza nemmeno rendermene conto inizio a strattonarle le spalle, e lei, per tutta risposta mi ride in faccia. 
“L’ho venduta”
“Complimenti, davvero un’idea grandiosa!” mi sto decisamente incazzando perché quel sorrisino sulle labbra scoppia in una risata, ma io non ci trovo nulla per cui farlo. 
“Sei ancora divertente quando ti arrabbi” giro la faccia per non guardarla e non andare in escandescenze più di quanto già non lo sia.
Si avvicina. Ce l’ho proprio di fronte, a pochi centimetri, quando sento la sua mano che si infila tra i miei capelli e al contempo spingere la mia testa verso il suo viso. Mi bacia sulle labbra e io per un momento non capisco nulla e la lascio fare. Non succedeva da così tanto tempo, che ho perso il conto. Ma è proprio quando perdo la testa e il bacio si fa più profondo, che riprendo le mie facoltà mentali.
Sento la lingua amara. Ed è proprio in quel momento che metto fine a quel bacio insensato. Non è la prima volta che succede.
“Ti sei fatta nuovamente! Cazzo!”
“E allora?”
“E allora quando abbasso le mie difese mi rendo conto che sei la solita stronza!”
“Non ti è ancora passato il vizio di giudicarmi…”
“No, perché ciò che sei ha rovinato la nostra esistenza! Ti droghi, vendi l’unica arma che poteva servirti e giri con una spranga nel bagagliaio! Perché? Per cosa l’hai usata? Voglio delle spiegazioni, e anche in fretta!”
“Per LUI…”
“È stato scagionato”
“Noa…è stato lui! E lo sai anche tu!”
“È solo un ragazzino! E non sei mai riuscita ad avere prove concrete!”
“Sai benissimo che me l’hanno impedito! In ogni caso ho scoperto la sua nuova abitazione, e ieri notte l’ho trovato qui che spacciava in zona”
“E tu ne hai approfittato per fare rifornimento”
“Già, ma l’ho fatto per potermi avvicinare a lui, poi le cose si sono messe male e mi ha quasi uccisa…e…”
Veniamo interrotte da quelli del carro attrezzi. Ovviamente tocca a me pagare le spese per rimozione e custodia. Diana cambia di nuovo umore perché si sente avvilita per questo, ma dopotutto non fa nulla perché le cose cambino.
La prendo per un braccio e la esorto a seguirmi.
“Che cazzo fai?”
“Faccio che ce ne torniamo a casa e mi dovrai spiegare tutto quello che è successo.”

Non so mai fino a che punto credere a Diana. Il suo racconto sembra attendibile, ma l’abitudine di raccontami balle non le è mai passata. Dopo aver cercato di acquistare della roba, Diana aveva cercato di colpirlo con quel pezzo di ferro, ma il ragazzino aveva avuto la meglio.
“Ti è andata bene”
“Ho ancora degli ottimi riflessi. Ero riuscita a salire in macchina. L’ho inseguito per tre isolati e lo avevo quasi preso sotto…poi…”
“Poi…cosa?”
“Ho avuto un attacco di panico e mi sono fermata…poi ho simulato un incidente”
“Prega che quel folle non ti denunci”
Lucas Walsh era un balordo di 20 anni di origini irlandesi. Dalle indagini di Diana venne fuori subito che era figlio di un pezzo grosso della Irish Mob. Perlopiù spacciava, ma non si sottraeva ad altre attività illecite. L’ultimo ragazzino ucciso, e di cui Diana si occupò quando ci eravamo appena conosciute, frequentava la stessa scuola superiore di Lucas, con la differenza che quest’ultimo era un accanito ripetente. Noa, faceva parte dello stesso istituto, e conosceva entrambi. Non era stato difficile unire gli elementi che portassero a quei risultati. Ma poi le cose si complicarono quando anche il corpo senza vita di Noa, scomparve. 
“Sarei riuscita ad ucciderlo se…”
“…se non ti fossi fatta” 
“Ruby, cazzo!”
“È la verità! Vuoi forse dire che non è così?”
“Quel maledetto ha una forza sovrumana per essere un ragazzino”
Fermo la macchina, siamo arrivate.
Mi sento terribilmente stanca, a pezzi. Debole. Come se mi fosse caduta addosso una montagna. 
Appoggio la testa sullo sterzo.
“Non ne posso più”
2 Tutto in una notte


Diana prese uno dei portafoto e lo porse a Ruby senza dire una parola. L’immagine ritraeva lei e la figlia quando era ancora una bambina.
“Ti somiglia molto…”
“Somigliava” aggiunse con voce strozzata.
“Io…non so che dire…mi dispiace molto…”
“Non devi dispiacerti, basto già io a farlo. Vuoi favorire?”
Versò dell’abbondante Jack Daniels in un bicchiere.
“No, grazie. Non mi piace”
“Veramente? Bella e senza vizi?” Diana sorrise sarcastica.
“E tu? Bella e con i vizi…?” Ruby non le fece mancare una battuta di rimando. 
“Non puoi immaginare quanti…” si avvicinò al divano con bicchiere e bottiglia tra le mani, per poi sedersi accanto a Ruby mantenendo una certa distanza. 
“L’alcool è l’unica cosa che non mi fa sentire sola.”
“Non c’è nessuno nella tua vita?”
“No, solo un ex marito che di tanto in tanto mi dà noia…ma non ne voglio parlare ora. Dopotutto non so chi tu sia.” mandò giù il whiskey tutto d’un fiato, poi versò dell’altro liquore e buttò giù tutto nuovamente.
“Le tue faccende sentimentali non mi interessano. Sei tu che hai voluto incontrarmi.”
“Già. Non so nemmeno io perché. Forse…beh non importa. So che sei un’ottima giornalista…”
“Quindi ti sei informata anche tu su di me…” sorrise.
“Naturalmente. Comunque voglio farti vedere una cosa.”
Prese il notebook, inserì la password, e ciò che si aprì furono le foto della scena del crimine di Noa.
Ruby capì immediatamente che Diana si stava riempiendo di alcool per reggerne la visione, così accorciò le distanze spostandosi di più verso di lei. 
Al seguito, iniziarono le carrellate delle immagini di Noa, nuda, stesa sul lettino dell’obitorio, supina: la pelle gialla e le macchie ipostatiche generate dalla pressione del cadavere, la facevano sembrare solo un pezzo di carne qualunque. 
Le due donne restarono in silenzio, interrotto di tanto in tanto dal “click” del pad e dalla luce emessa dal computer. 
Ruby cercò di deglutire, ma non c’era saliva nella sua bocca.
“Ci…ci sono anche le immagini dell’autopsia?”
“Immagini e clip, se ti interessa.”
Diana non attese la risposta affermativa della donna e cliccò su un’altra cartella presente sul desktop, poi premette l’avvio su uno dei video in cui si vedevano un paio di medici bardati per l’occasione e la ripresa che si spostava sul petto nudo di Noa.
Le immagini non erano particolarmente nitide, ma si capiva tutto.
Nel momento in cui si vedeva uno dei medici avvicinarsi col bisturi al corpo di Noa, Diana prese la bottiglia e si versò un bicchiere colmo fino all’orlo di Jack Daniels, che non attese oltre di mandare giù in contemporanea allo zoom della macchina da presa sulla mano del medico, che con il bisturi iniziava ad aprire la cassa toracica della ragazza con un deciso taglio a “Y”.
Derma e tessuto adiposo sembravano burro al tocco del chirurgo, che con altrettanta facilità recideva con la forbice i nervi fino a tagliare la gabbia toracica. 
Nel momento dell’estrazione dei primi organi interni, Ruby ebbe un conato di vomito che non riuscì a trattenere, rimettendo sul pavimento.
“Ho avuto la tua stessa reazione la prima volta.”
“Cazzo, è terribile” si asciugò la bocca con la mano.
“E anche la seconda, e la terza…adesso riesco a reggere, ma solo perché mi estranio con l’alcool.”
“Ma a cosa ti serve riguardare questo orrore?”
“A prendere consapevolezza del mio fallimento come madre…”
Ci fu un breve silenzio.
“Do una pulita, tu vai pure a rinfrescarti. Fai come se fossi a casa tua.”

Sotto l’acqua tiepida della doccia, era come se si aspettasse di lavare via le immagini cruente che aveva appena visto. 
Ruby prese un po’ di sapone dal dispenser e con foga si strofinò le mani. Poi tutto il corpo. E di nuovo le mani, con più foga e insistenza, sfregandole fino a farle sanguinare.
“Merda!”
Spaventata, si guardò intorno e prese il primo asciugamano che si trovò a tiro per tamponare le ferite. 
“Grande! Di tutti i colori, proprio il bianco!”
“Tutto bene?” Diana bussò alla porta del bagno, ma Ruby presa dalla situazione non aveva sentito nulla, così, preoccupata, la donna aprì leggermente la porta. Il giusto per poter avere una conversazione ma senza scavalcare gli spazi. 
“Ruby??”
“Sì, sì! Solo avrei bisogno di dare una lavata ai vestiti…posso usare la tua lavatrice?”
“Nessun problema, ma sicura sia tutto ok?”
“Sì.”
Diana non era convinta, ma decise di non insistere. Un po’ perché lei stessa era brilla, e un po’ perché in casa sua erano anni che non veniva qualcuno a farle visita.
Essere invadente con Ruby poteva significare farla scappare. E lei non voleva. Ma per quale ragione, poi? 
“Ti ho portato un paio di cose mie. Più o meno abbiamo la stessa taglia.”

Ruby uscì dal bagno accertandosi che le ferite sulle mani non fossero visibili.
Diana era un po’ alcolizzata, ma dopotutto era sempre un poliziotto.
“Ti ho preparato del tè caldo.”
“Ah, beh, grazie.”
“Non ho solo alcool in casa, se è questo che credi.”
“Io non credo proprio niente” entrambe si sedettero al tavolo della cucina.
“Perché mi hai fatto vedere quel video?”
“Eri curiosa, no?”
“Non di vedere un’adolescente macellata.”
“Da quando ci siamo incontrate non hai fatto altro che impicciarti dei fatti miei!”
“E tu mi ci hai fatta impicciare.”
“Solo perché non volevo che la tua indole da paparazzo facesse danni divulgando informazioni sbagliate, cosa credi?”
“Ok, ora basta! Ti ringrazio per il tè. E non preoccuparti, farò finta di non sapere niente!”
“Non puoi. Ormai ci sei dentro. E poi te ne stai andando con i miei vestiti…”
Ruby si alzò, tolse la t-shirt buttandola sopra al tavolo, rimanendo mezza nuda davanti a Diana, che abbassò lo sguardo.
“Ti prego, rivestiti…riparliamone domani mattina. Puoi usare il mio letto, io devo fare delle ricerche.”
Ruby batté il pugno sul tavolo, iniziando a gridare.
“Come puoi pensare che io riesca a dormire dopo quello che ho appena visto?”
“Ti posso dare delle ottime pillole che uso io…”
“Il tuo letto, le tue pillole…tu sei pazza!”
“Forse, ma non sono io che sto urlando mezza nuda nell’appartamento di una quasi sconosciuta. E adesso, copriti per favore” le porse la maglietta tra le mani, notando le ferite. Ma non disse nulla. 
“La tua autorità da poliziotto con me non funziona!”
Diana si alzò a sua volta e si mise proprio di fronte a Ruby, guardandola dritta negli occhi. Le due donne erano quasi alte uguali.
“Se volessi essere autoritaria come dici, non ti pregherei…” prese le mani di Ruby e le strinse nelle sue.
“Non volevo turbarti mostrandoti quei video. Anzi, c’è dell’altro.”
“Scusa?” la giornalista si ritrasse.
“Non pensare male, nulla di simile a ciò che hai già visto, te lo assicuro.”
“Perdonami, ma mi è venuto un gran mal di testa. Forse ora il tuo letto mi serve davvero.”

Diana rimase davanti al computer per un’altra ora buona, guardò sullo schermo: erano quasi le tre di mattina. Chiuse il laptop, si alzò dal divano andando verso la finestra cercando di godersi il panorama, ma venne distratta dal rombo di una moto. Sporgendo lo sguardo vide il ragazzo che la guidava fermarsi e togliersi il casco, per poi guardare su, proprio nella direzione dell’appartamento della donna.
Gli alberi sul marciapiede non lasciavano il campo visivo del tutto libero, ma da quel poco si vedeva che si trattava di un ragazzo molto giovane con i capelli a metà lunghezza raccolti con un codino che lasciava intuire che sotto fosse rasato. Barbetta incolta e una cicatrice vistosa sul sopracciglio sinistro. Quest’ultima non le fece avere dubbi: era lui! Lucas Walsh!
Di primo acchito pensò di prendere la pistola, ma il suo pensiero non fu veloce quanto il ragazzo, che immediatamente ripartì. In ogni caso non sarebbe stata una buona idea, considerando l’alcool che aveva in corpo.
Non riusciva a capire perché fosse venuto lì e soprattutto come fosse in possesso dell’indirizzo della sua abitazione, ma decise che lo avrebbe scoperto presto. 
Intanto la stanchezza si era fatta sentire anche su di lei, così decise di dare un ultimo sguardo al materiale comodamente dalla camera.
Entrò cercando di fare il meno rumore possibile. Appoggiò il computer aperto sopra il comodino e, sedendosi leggermente sul letto, tramite la luce del desktop vide Ruby che dormiva girata da un lato, con un braccio completamente fuori dalle lenzuola. La luminosità mise in evidenza la mano della donna, piena di piccoli tagli. 
La toccò cercando di spostare le dita, notando del sangue leggermente rappreso, ma le indagini finirono subito, perché Ruby si svegliò e girandosi di scatto prese il polso di Diana, stringendolo, senza avere intenzione di farle male.
“Che cosa volevi fare?”
“Come ti sei procurata queste ferite?”
“Non sono cazzi tuoi!”
“Sai, anche io da ragazza soffrivo del tuo stesso disturbo…” Ruby strinse di più il polso di Diana, che però ribaltò la situazione fermando entrambi quelli della donna.
“Dimentichi sempre che sono io il poliziotto” il tono della sua voce era quasi di scherno, mischiato ad un sorriso sarcastico. 
I loro sguardi erano vicinissimi.
“Da quanto lo vuoi, Ruby?” divenne improvvisamente seria senza distogliere lo sguardo dagli occhi di lei, poi la lasciò andare.
Le due donne non parlarono più, i loro occhi parlavano per loro. Si osservarono a lungo, come per non perdere nemmeno un centimetro dei lineamenti l’una dell’altra. 
Gli occhi di Diana diventarono lucidi e iniziarono a brillare di una luce nuova, quando Ruby posò lo sguardo sulle labbra di lei, che non mancò di sorriderle scostando alcuni capelli ribelli dietro l’orecchio. Senza alcun motivo si sentirono entrambe come completamente sollevate dalla terribile giornata: ora esistevano solo loro due. Ruby appoggiò una mano dietro al collo di Diana, con l’esplicita intenzione di ricevere ciò che sembrava inevitabile arrivare, finché tutto si interruppe. 
“Ti chiedo scusa.”
“Non fa nulla.” Ruby si alzò di scatto dal letto con lo stupore di Diana.
“Ma dove vai?”
“A casa mia. Scusami, non mi sarei dovuta trattenere qui.”
“No, aspetta, ti prego… È colpa mia, vero?”
“Tu fai paura. Cambi umore di continuo.”
Ruby era cosciente del fatto che la donna non potesse essere stabile. Dopotutto aveva subito una tragedia, ma non si sentiva di restarle accanto. Men che meno dopo quello che era appena successo. 
“Non andartene, per favore. Io…non riesco a sopportare più il silenzio di questa casa…”
“Per questo hai provato a baciarmi? Per dare una scossa alla tua solitudine? Ci vediamo, detective.”
Riuscì ad aprire di poco la porta della camera da letto che Diana si ritrovò di fronte a lei. 
“Resta.”
3 Luke


Lucas Walsh, detto Luke, era il figlio del boss dell’Irish Mob, Aaron Walsh. Non uno, ma il pezzo grosso della mafia irlandese: un tipo che era riuscito a farsi strada con ogni tipo d’inganno e senza il minimo scrupolo, nemmeno verso la propria famiglia. 
Riteneva che l’attività dell’organizzazione potesse e dovesse allargarsi verso illeciti più remunerativi del semplice spaccio di stupefacenti e prostituzione.
Senza volerlo, Lucas fu l’incipit involontario per estendere l’organizzazione in una direzione che avrebbe fatto arricchire Aaron oltre ogni immaginazione. 
Quella notte, arrivò al Global Gas Station, nei dintorni di Hunts Point. Fermò la sua moto vicino ad una delle pompe di benzina e tirò fuori il cellulare dalla tasca accertandosi dell’orario.
“Cazzo, muoviti!”
La persona che stava aspettando doveva essere in ritardo, così entrò nel negozio della stazione di servizio per prendere qualcosa da bere. 
Proprio in quel momento squillò il telefono.
“Vieni fuori da lì, coglione.” la chiamata si interruppe immediatamente. 
Uscendo dal negozio, dal lato opposto della strada, sostava una Mercedes nera.
Lucas si avvicinò, poi una delle portiere posteriori venne aperta improvvisamente: uscì un energumeno vestito dello stesso colore dell’auto che strattonò il ragazzo spingendolo all’interno della vettura. 
“Che cazzo, Thompson! Insegna l’educazione a questo bestione!”
 Il ragazzetto si lamentò toccandosi un braccio con una smorfia di dolore.
“Ti ho sempre detto di non chiamarmi per nome, pezzo di merda!”
“Il tuo nome del cazzo invece lo ripeto! Thompson! Thompson! Thomp…” il tizio che prima lo aveva urtato, gli mollò una sberla sul viso, mentre l’altro uomo ridacchiò, per poi inalberarsi.
“Ringrazia di essere figlio di tuo padre e che io non mi chiami veramente Thompson, altrimenti saresti già morto da un pezzo!”
“E tu ringrazia di essere con questa specie di Hulk!”
“Cerca di portarmi rispetto, cazzone! E adesso, dimmi…hai posizionato l’ordigno dove ti avevo ordinato?”
Lucas guardò l’uomo con aria interrogativa, poi si decise a rispondere.
“Ma tu non mi avevi detto…”
“Dove cazzo lo hai messo?!?”
“Ecco, io…dentro la macchina…tra i compressori del climatizzatore…”
“Sei proprio un coglione! Che cazzo ti ho dato a fare l’indirizzo di quella, secondo te?”
“Ma non potevo entrare in casa e…”
“Non dovevi entrare da nessuna parte! Era sufficiente nasconderlo in zona. Prega che tutto fili liscio o ti farò fare una brutta fine!”
Lucas stava digrignando i denti, e i pugni chiusi sembravano voler trovare la faccia del suo interlocutore. Ma non ci sarebbe arrivato. La guardia del corpo lo avrebbe fatto a pezzi subito.
“Ora vattene e tienimi informato.” l’uomo dal finto nome scaraventò il ragazzo fuori dall’auto facendolo cadere a terra in malo modo, per poi dare cenno all’autista di ripartire. 
Lucas rimase a terra ancora per un istante, piangendo e battendo i pugni sul cemento. Faceva impressione e allo stesso tempo tenerezza, che un ragazzo così selvaggio potesse nascondere un lato così apertamente infantile. 
“Cazzo, cazzo! Non avrei mai dovuto…mai…!”
La caduta gli aveva fatto fuoriuscire il cellulare dalla tasca dei jeans, se ne accorse poco dopo e accertandosi che ancora funzionasse, esitò per un momento, poi cliccando nel menù entrò nella galleria fotografica del telefono, scorrendo fino a delle immagini che lo ritraevano mentre era in atteggiamenti teneri con una ragazza. E quella ragazza era proprio Noa, la figlia di Diana.
“È troppo tardi…se solo potessi tornare indietro…”
Le osservò a rotazione per un po’, poi le selezionò tutte e, con il pollice tremante, dallo schermo digitò il bottone “elimina”. Quel gesto era come se dovesse mettere fine a quel momento di debolezza, un momento che doveva essere scacciato, perché la notte non era ancora conclusa e perché doveva ancora finire di “lavorare”. E poi, perché non voleva ricordare. Non in quell’istante quanto meno. Si alzò barcollando, poi aprì la borsa posta sulla parte posteriore della moto e tirò fuori alcuni sacchetti contenenti cocaina, altri marijuana. Da uno di questi ultimi prese la quantità sufficiente per rollare uno spinello: aveva bisogno di fumare. 
Dopo un paio di boccate riprese il telefono cercando il numero del padre, ma squillò a vuoto.
Riprovò e questa volta rispose.
“Che c’è Luke?” lui odiava essere chiamato così. Lui si chiamava Lucas. Lucas era il nome che aveva scelto sua madre. Ed era tutto ciò che gli restava di lei. 
“Ho appena visto Thompson…”
“Sì lo so. Me lo ha detto. E mi ha anche detto che non sei stato molto bravo. Ad ogni modo, Luke…non pensare di tornare a casa fino a quando non avrai messo fine a questa storia.” 
“Cazzo, papà…”
“Non voglio ritrovarmi nessuno, e ripeto, nessuno di quelli che hanno visto tutto, mandare a puttane il mio lavoro. Fai quello che devi e vedi di farlo bene. Domani è l’ultimo giorno utile. Non te lo ripeto più.”
Lucas avrebbe voluto controbattere, ma la chiamata era stata interrotta ancora prima di poterlo fare, così, in mezzo alla strada, come se fosse stato un pazzo, improvvisò una conversazione con il padre continuando a tenere il cellulare accanto all’orecchio e a urlare.
“Non faccio altro che vivere nella continua paura di fallire! E fallisco, papà! Fallisco sempre! Non mi hai insegnato niente! Solo che le cose che vuoi le devi ottenere con il male! Anche a costo di strappare delle vite! Che l’esistenza non conta nulla! Conta solo il rispetto di chi sta sopra di te e i soldi! Cazzo! Cazzo! Anche la mamma…la mamma era diversa…io volevo essere come lei…invece…”
La suoneria del telefono riportò Lucas alla realtà: era Thompson.
Eppure gli sembrava che non avessero più nulla da dirsi.
“Devi sistemare Liam. Stanotte.”
“Ma papà aveva detto…”
“Aveva detto. Ma non c’è più tempo. Dimmi se ti serve qualcuno.”
“No, me la posso cavare da solo. Come al solito.”
“Meglio così.”
Lucas saltò sulla sua Harley. Diede così tanto gas da farlo sembrare un tuono. I suoi pensieri tormentati correvano più veloci della motocicletta.  
4 Lucas


Erano ormai le cinque della mattina quando Lucas arrivò nel quartiere di Liam.
Il ragazzino viveva con i nonni materni a Williamsburg, in una casa popolare adiacente ai ricchi palazzi che affacciavano sul fiume. Benché le loro vite e le loro tasche fossero diverse, Lucas considerava Liam il suo migliore amico. Anzi, il suo unico amico. Non ne aveva altri.
La loro amicizia nacque quando Lucas, per la terza volta, fu costretto a ripetere il terzo anno di liceo, finendo in classe proprio con Liam. La passione per le moto e le corse, li unì immediatamente, con la differenza che Liam non possedeva una motocicletta perché aveva solo 16 anni e perché a stento i nonni potevano permettersi il necessario. Andando avanti con la conoscenza, Lucas scoprì che i genitori di Liam erano morti: il padre per gelosia uccise la compagna e successivamente si tolse la vita quando lui era molto piccolo. L’odio che Liam provava per il padre era lo stesso che provava Lucas per il suo: con la differenza che suo padre era ancora vivo. Inoltre, Lucas non amava la scuola, e anche se tutti sapevano provenisse da una famiglia milionaria, questo non gli rendeva comunque facile la vita didattica: spesso era stato beccato a spacciare nei corridoi, anche impunemente davanti ai professori. Dicevano fosse un ragazzo difficile perché aveva perso la madre qualche anno prima in circostanze non meglio note. Anche questo era qualcosa che lo accomunava a Liam. Qualcuno addirittura faceva illazioni, dicendo che fosse stato lui stesso ad averla uccisa, essendo un balordo. Tutto questo faceva soffrire il ragazzo, che non solo frequentava di rado il liceo, ma non riusciva nemmeno a stringere amicizie quelle poche volte che provava ad andarci. Liam era stato l’eccezione. L’unico che, invece di giudicarlo quando non entrava in classe per saltare le lezioni più difficili, le saltava insieme a lui. Quando Lucas un giorno arrivò a scuola con una nuova moto, tutti pensavano si trattasse di un capriccio esaudito dal padre milionario, invece era un regalo per il suo migliore amico. Così, oltre alle voci che lo dipingevano come un matricida, seguirono quelle che fosse anche omosessuale, perché “un regalo così un amico non te lo farebbe mai”; invece nessuno sapeva che Lucas aveva trovato in Liam un fratello. Più piccolo, e anche un po’ fragile. Il fatto che entrambi, per ragioni differenti, non potessero contare su una figura genitoriale, lo faceva sentire legato a lui in un modo così morboso da volerselo portare ovunque, anche quel giorno maledetto che cambiò non solo il loro destino, ma anche quello di Noa.
Essere lì in quel momento lo faceva star male, ma non poteva evitarlo.
Posteggiò la moto nell’ultimo scorcio di oscurità che restava della notte, poi iniziò a camminare avanti e indietro come una belva relegata in uno zoo che cerca di pensare ad una via di fuga che in realtà non c’è.
Sudava, nonostante la temperatura autunnale fosse tutt’altro che calda.
Si guardò intorno come se qualcuno potesse scoprire quello che gli passava per la testa, e alla fine si decise.
Fece squillare il cellulare di Liam: due squilli, una pausa, e ancora due squilli. Era il loro codice per comunicare un’urgenza. 
Liam rispose allo stesso modo, e dopo qualche minuto raggiunse in strada l’amico.
“Che ci fai qui? Come è andata con “quella””?
“Fregatene di come è andata. Senti, tu devi andar via.”
“Cosa? E dove devo andare?”
“Non lo so. Non hai parenti da qualche parte?”
“Ma tu mi avevi detto che sarebbe andato tutto bene, Lucas! Tu me lo avevi promesso!”
“Lo so, ma tu sei l’ultimo rimasto…”
“Cazzo! Cazzo!”
“Io…non potrei fare eccezioni…l’unico modo per non ucciderti è dire a mio padre di non averti trovato, ma tu devi andar via…”
“Ma non ho soldi! E non posso chiederli alla mia famiglia! Farebbero domande…”
“Vendi la moto.”
“Cosa?”
“Vendila. Anzi, te la vendo io a un tizio che conosco. Poi ti darò qualcosa, ma finché quel pezzo di merda di mio padre non sa che ho concluso anche con te, non mi darà più un centesimo. Ma non mi sgancerà più niente in ogni caso quando saprà che non ti ho fatto fuori.”
“Ho paura, Lucas…”
“Lo so.”
Liam si buttò tra le braccia di Lucas, che rimase sorpreso da tanta tenerezza, ricambiando a sua volta.

CONTINUA…

A PERFECT LIE: Cap. 1

AVVERTENZE! La storia è indicata per un pubblico adulto. Contiene scene di violenza, tematiche delicate, sesso e droga. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale. Le immagini delle attrici si riferiscono al cast virtuale dei personaggi, usato esclusivamente per rendere il racconto più accattivante.

VIDEO PROMO:

Ombre sui grattacieli

1
La nostra vita


Era incredibile la sua capacità di stupirmi.
Sapevo che ogni notte tornando a casa, lei, nuovamente, non ci sarebbe stata.
Ovviamente sono ironica. Non c’era quasi mai. 
Perciò, entravo. Controllavo che realmente non ci fosse, e uscivo nuovamente. Per non pensare. Ma camminare per i vicoli desolati di Manhattan mi faceva solo pensare di più. Diverse volte ho rischiato di essere rapinata. Che poi, per una donna che gira sola, la rapina è il male minore. 
Raramente, come stanotte, la trovavo lì ad aspettarmi: nuda dentro al letto, tra fresche lenzuola scomposte e con il mio cuscino tra le braccia. 
“Dove sei stata?” odio quel tono ironico e di sfida, quasi fastidioso, a cui aggiunge un sorriso sornione e irresistibile.
“E tu, invece?” Non ottengo riposta.
É uno di quei momenti in cui non mi fa nemmeno spogliare, che me la ritrovo di fronte con il lenzuolo bianco che avvolge il suo corpo fino alla prossimità del seno, e che contrasta con i suoi capelli neri, per poi vederlo cadere a terra.
“Allora? Devo spogliarti io, Ruby?”
Le sue braccia intorno al collo e i suoi occhi scuri che guardano insistentemente le mie labbra, stanno ammorbidendo le mie difese. Eppure, non merita le mie attenzioni.
“Non puoi ogni volta fare così…cos’è questo profumo? Non è tuo” conosco il suo odore, e ciò che si mette addosso per essere ancora più appetibile.
“La smetti di fare domande? Goditi il momento…” cerca di baciarmi, sento la morbidezza dei suoi capelli ondulati sul mio sterno. Sto per cascarci, quando decido di metterla alla prova.
“Odori di uomo, Diana. Puzzi come uno di quei bavosi con cui lavori. Per così dire.” Non é vero: sto mentendo, ma lei non può saperlo. 
Le sue braccia intorno a me, stanno abbandonando la presa. Il calore del suo respiro sulla mia bocca mi sta lasciando. Poi, un breve dolore sulla mia guancia. Cerco di non perdere il controllo, mentre stringo forte il polso della mano che mi ha schiaffeggiata.
“Lasciami, Ruby! Non sarei dovuta tornare questa notte. Non sono venuta qui per farmi umiliare nuovamente da te!”
“Umiliarti? Io? Stai scherzando, spero!”
“Se non ti piace ciò che sono, possiamo anche finirla qui!”
“Non mi piace quella che sei diventata! È diverso!”
“Sono sempre stata così.”
“Non dire cazzate, sai benissimo che stai dicendo una marea di stronzate!”
“Ho sempre avuto una predisposizione per le dipendenze…del resto…se non fosse stato così, non starei con te.”
“Facile girare la frittata in questo modo!”
“Perché? Vuoi forse convincermi che non è così?” 
Lei che si crede dipendente da me…lei! Lei! Capito? 
Ho un ricordo così bello di lei e del nostro primo incontro, che se solo ci penso il fiato si spezza, ma allo stesso tempo provo rabbia e nausea, come se il mio amore per lei mi avesse tolto tutto quello che avevo quando ho preso coscienza di amarla.
Non dice più nulla. Indossa la mia camicia che avevo appoggiato sulla sedia la notte scorsa e allaccia solo il bottone di mezzo. Ma è proprio mentre la guardo sistemarsi i lunghi capelli all’insù che capisco cosa sta per fare.
“Diana…ti prego…”
“E perché no? Non ho niente da fare qui.”
Si avvicina al letto, si siede e apre il cassetto del comodino.
La sta tirando fuori…sta tirando fuori quella merda…!
Se ora dovessi avvicinarmi e buttargliela sul pavimento so già che finirebbe a schifo. Ormai siamo arrivate anche alle mani.
Così la guardo…guardo quella roba che dal naso le sale al cervello, e che me la sta portando via…
2
Due anni prima dell’oblio


“Cos’abbiamo qui?”
“Omicidio per arma da fuoco, detective” dal tono della voce, il poliziotto non sembrava poi così convinto. 
“Levati e fammi vedere!”
Il ragazzo a terra aveva un foro nel petto, ma ai lati della bocca si poteva vedere bene della schiuma bianca mischiata a sangue.
“Arma da fuoco, eh?”
“Detective, io…”
La discussione venne interrotta dall’arrivo di un’auto.
“Chi ha avvisato i giornalisti?”
“Io non…”
“Certo, tu non ne sai nulla.”
Dall’auto scese una donna piuttosto attraente, alta, capelli lunghi. Sulla quarantina, ma sembrava più giovane.
Vestita di tutta pelle, giacca aperta e una maglietta bianca che non lasciava spazio all’immaginazione.
Al suo seguito, un paio di fotografi.
“Ruby Evans, piacere” la donna allungò la mano verso il detective, che però non rispose con altrettanta cortesia.
“Diana Bitton. E le assicuro che non è un piacere. Qui è morto un ragazzo di appena 15 anni”.
“Può dirmi di più di questo ragazzino?”
“Cosa dovrei dirle? Senza documenti, come gli altri tre prima di lui”.
Diana chiuse la cerniera del telo che conteneva il cadavere, poi fece cenno a uno dei poliziotti di portarlo via.
“Povero ragazzo…si può ipotizzare la causa del decesso?”
“Le pare che io sia un anatomopatologo o un medico legale? Per ora ciò che sembra evidente, è che la ferita da arma da fuoco sia solo un espediente.”
“Che cosa intende esattamente?”
A questa domanda Diana si stizzì, ponendosi di fronte alla giornalista a pochi centimetri dalla sua faccia. 
“Mi ascolti bene, Miss Evans, per lei questa è un’occasione di fare uno scoop e alzarsi di un gradino verso una carriera gloriosa, ma per me è ben altro! Perciò, si tolga dai piedi! Con una spallata cercò di congedarsi, ma Ruby la afferrò per un braccio.
Per un attimo Diana rimase senza fiato: era un tocco deciso, ma allo stesso tempo delicato. 
“Le consiglio di togliermi le mani di dosso! Sa che potrei piantarle una pallottola in uno dei suoi punti vitali?”
Ruby mollò la presa, era divertita e al contempo affascinata, poi tirò fuori dalla sua borsa un biglietto da visita.
“Mi chiami, quando sarà più ragionevole. So che lo farà.”
Diana rimase molto sorpresa dalla calma con cui Ruby si era rivolta a lei nonostante i suoi modi bruschi, così prese il biglietto con supponenza, quasi strappandolo dalla mano della giornalista, e si allontanò di fretta. 

Il mattino seguente, Ruby entrò in ufficio di buon’ora. In redazione era stata la prima ad arrivare, in modo da poter dedicare parte del suo tempo a qualcosa che non riusciva a togliersi dalla testa: la reazione del tutto anomala e fuori luogo di Diana. In realtà a un giornalista basta poco per fare accendere la miccia della curiosità, ma Ruby sentiva che dietro c’era molto di più del semplice fastidio di un poliziotto verso la sua categoria. L’intento era di cercare informazioni su Diana: un detective deve essere abituato a certe cose, no? E perché non sembrava essere così? Iniziò quindi a fare una ricerca in archivio degli articoli dei vari casi di omicidio degli ultimi anni, ma era tutto piuttosto regolare, tranne che per un fatto: quelli legati alla morte di ragazzini erano stati tutti assegnati a Diana. Non del tutto soddisfatta, decise di inserire solo il cognome: “Bitton”. Quello che ne venne fuori le raggelò il sangue, ma non fece in tempo a pensare lucidamente che squillò il cellulare: era un numero non presente in rubrica. 
“Sì?”
“Miss Evans? Sono Diana…Diana Bitton.”
In realtà Ruby non si aspettava che Diana la chiamasse, pensava sarebbe rimasto un vano tentativo, ma al di là di questo, si sentiva molto lontana dalle prime intenzioni per cui glielo aveva lasciato.
“Buongiorno Miss Bitton, a cosa devo…”
“Possiamo vederci?” tagliò corto.
“Beh, ecco…”
“La aspetto fuori dalla redazione alle venti in punto” la chiamata si interruppe. 

3
Risveglio nell’abbandono


“Ma cos’è questo casino…? Accidenti…” Pensavo di avere programmato la sveglia alle otto, ma si è stranamente attivata prima. Io e la tecnologia a volte non ci capiamo. Prendo il cellulare e reimposto tutto inserendo il silenzioso, poi lo ributto sul comodino.
Mi sento totalmente rincoglionita. Mi ero addormentata piangendo, con Diana al mio fianco completamente fatta…ma…
“Diana…? Cazzo! Cazzo!”
Se ne é andata. Ha aspettato che mi addormentassi per uscire.
“Maledetta stupida!”
Sono stanca di sentirmi impotente e di continuare a lasciarla fare. Sono stanca di rifiutarla perché mi schifa quello che fa e con chi. Vorrei uscire e andarla a cercare, ma sono anche stanca fisicamente.
Al lavoro arrivo sempre tardi, e se non fosse stato per gli articoli che a stento consegno puntuali, mi avrebbero licenziata da tempo. Mi nutro perlopiù di crackers e yogurt, che sono le uniche cose commestibili che trovo al distributore sotto casa. Non ho tempo e voglia di cucinare. Non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho cucinato, men che meno quando lo ha fatto Diana, so solo che in cucina non c’è nemmeno una padella fuori posto e i piatti hanno cm di polvere sopra. 
Questo appartamento è molto diverso dal giorno in cui lo avevamo affittato per la prima volta. Un tempo sapeva di fresco, di pulito. E non solo perché lo tiravamo a lucido. Rispecchiava ciò che eravamo, e che con il tempo abbiamo perduto. Era luminoso, ogni angolo parlava di noi e del nostro amore. Adesso le serrande sono sempre abbassate, ed entra una penombra ostile, che non ha nulla di romantico; l’aria è viziata, alternata solo quando stendiamo i vestiti ad asciugare. Il sole non entra più dalle finestre e nella nostra vita. 
Fare questo viaggio a ritroso in quello che era stato di noi, non mi aiuta a decidere di alzarmi dal letto e andarla a cercare. Dopotutto manca ancora qualche ora, così decido di chiudere gli occhi e di riposare quel tanto che mi consentirebbe di andare al lavoro lucida il giusto. Ma ormai il sonno se ne é andato, rimanendo solo quella stanchezza che non ti fa dormire.
Con la coda dell’occhio noto il telefono lampeggiare e mi sembra di intravedere il suo nome che batte sullo schermo.
Prima se ne va e poi chiama? Muori! 
Cazzo! Anche se il cellulare non suona, quel continuo brillare mi dà noia e decido di rispondere.
“Cosa vuoi?”
“Amore, ho fatto un incidente.” 
Ma da quando ha ripreso a chiamarmi amore esattamente? Non pensavo che la droga inacidisse e addolcisse la gente alla velocità della luce. 
Un incidente…ci sarà davvero da crederle?
“Ti prego…non so nemmeno dove mi trovo…”
“Mandami la tua posizione…cazzo, Diana!”
Ed ecco che comincia a piangere come una fontana e a non capirsi più nulla di quello che dice, tra singhiozzi e voce impastata dall’alcool. Ormai conosco tutte le fasi di questo delirio.
“Diana, ti ricordi come mandare la posizione dall’applicazione? Ti ricordi quando dovevamo vederci la prima volta e non riuscivamo a trovarci?”
“Sssì, me lo ricordo…”
“Ecco, brava. Ora metti il vivavoce così hai le mani libere”.
Fortunatamente si è calmata e mi ha mandato questa dannata posizione. Vediamo…Central Park! Beh, pensavo peggio!
“Ti è arrivata?”
“Sì. Non muoverti da lì”.
4
Segreti


Ruby uscì dall’ufficio alle 19:30, pioveva e non voleva assolutamente arrivare in ritardo. 
Diana al telefono era stata ermetica e frettolosa, così pensò che una donna di quel tipo ottimizzasse su tutto e che fosse il caso di anticipare l’uscita. 
Sistemò il manico dell’ombrello sotto al braccio, in modo tale da poter tirare fuori dalla borsa uno specchietto tascabile e controllare che trucco e capelli fossero ordinati, poi si spruzzò un po’ di profumo sui lati del collo e sui polsi, in seguito prese in mano il cellulare per passare il tempo che restava prima dell’incontro. 
Pensò di rimanere in attesa nei dintorni della redazione, in modo da farsi trovare subito, ma qualcosa andò decisamente storto, in quanto alle 20 in punto Diana ancora non era arrivata, e proprio in quel momento squillò il cellulare.
“Si può sapere dove si trova?” domandò seccata.
“Esattamente fuori dal palazzo, davanti all’ingresso.”
“Ma è sicura?”
“Certo, ma posso sapere in che zona è? Mi mandi la sua posizione.”
“D’accordo…”
Ruby scoppiò a ridere.
“Detective Bitton, io lavoro per il New York Times, ha completamente sbagliato strada!”
“Mer..! Mi dispiace tantissimo!”
“Non si preoccupi, continuerò ad aspettarla qui, purtroppo la mia macchina è fuori uso, altrimenti l’avrei raggiunta.”
“Ma con questo tempo potrebbe…” Ruby anticipò la risposta di Diana e tagliò corto.
“Non mi piace attendere nei locali da sola, preferisco stare qui. La aspetto.”

Diana arrivò con la sua Ford accanto al palazzo del Times, poi, sostò. La pioggia piuttosto fitta e i tergicristalli non consentivano una visuale nitida, e proprio mentre stava cercando di capire dove la stesse aspettando Ruby, sentì bussare al finestrino dalla parte del passeggero: era lei.
Diana fece cenno con la mano di salire, e Ruby si affrettò a chiudere l’ombrello e ad entrare in macchina. Nonostante l’attesa e il maltempo, la giornalista le sorrise. 
“Alla fine ce l’abbiamo fatta!”
“Già, mi dispiace molto…ho la testa altrove, non era mia intenzione farla aspettare così tanto…”
“Non si preoccupi, ora sono qui tutta per lei! Di cosa voleva parlarmi?”
“Ecco, io…” 
Diana sembrava imbarazzata per la frase di Ruby, e al contempo il profumo fresco della donna e il blu intenso dei suoi occhi, la fecero distrarre per un momento, poi si riprese guardandola con espressione dolcemente interrogativa.
“Tu…Lei…” si corresse subito “…vuole mangiare qualcosa?”

Il fast food in cui Diana invitò Ruby era molto distante dalla sede del Times. Si poteva notare una forte affluenza di giovani di età scolastica superiore che pagavano, aspettavano il loro turno alle casse e mangiavano avidamente.
Ruby non poté non notare che Diana li stava osservando con interesse.
“Perché siamo qui esattamente? Forse è arrivato il momento di parlarne.”
“Sto svolgendo delle indagini in questo quartiere. Il ragazzo che abbiamo trovato morto l’altro giorno aveva in tasca uno scontrino del locale e qualche dollaro.”
“L’autopsia è stata fatta?”
“Sì, ma nello stomaco non c’era traccia di cibo, e lui è stato ritrovato un’ora dopo che era uscito da qui.”
“Quindi ha comprato cibo da asporto.”
“Esattamente.”
“Probabilmente nemmeno era per lui…”
“Probabilmente. Anche perché nei dintorni non c’era altro. Credo sia stato portato sul luogo del ritrovamento e che non ci sia arrivato con i suoi piedi.”
Diana sembrava molto preoccupata, di una preoccupazione che andava ben oltre delle semplici indagini, e Ruby lo percepì.
“Posso farle una domanda?”
“D’accordo…” la donna stava pizzicando un hamburger. 
“Che cosa la turba realmente? Non mi dica che è per il fatto che siano coinvolti dei ragazzini. Lei ne vede a bizzeffe di questi casi, anche più cruenti. Insomma, è abituata… Io credo, e mi corregga se sbaglio, che ci sia un legame personale con questa vicenda…”
L’ultima frase per Diana fu determinante per farle perdere il controllo, tanto da non riuscire a deglutire, poiché il boccone si incastrò nella trachea impedendole di respirare: Ruby, rendendosi conto della gravità della situazione, si alzò di scatto verso la donna iniziando a comprimerle l’addome, fino a farle sputare il pezzo di cibo.
“Diana, tutto bene?
“Sì…ora sì…sto…sto bene…”
Come se fosse la cosa più naturale del mondo, la donna si strinse a Ruby.
“Portami fuori da qui…”

Dopo avere impostato il navigatore, si mise alla guida dell’auto di Diana, che per gran parte del tragitto rimase appisolata con la testa appoggiata al finestrino. Ora le appariva estremamente fragile, ed era sicura che dopotutto lo fosse davvero: non riusciva più a vederla come la saccente e scorbutica poliziotta del primo incontro.
Avrebbe voluto parlare con lei, capire cos’era successo di così terribile da farla stare così male, approfondire quello che aveva appreso sul suo conto, ma di cui era all’oscuro. 
La ricerca le aveva fornito un solo e vago risultato, che la soddisfava solo in parte. Sapeva che il succo di ciò che cercava era stato sapientemente e volutamente omesso dalla polizia. 
Quei pensieri tuttavia furono presto sostituiti da un senso di tenerezza, quando il suo sguardo si posò per un istante sul viso di Diana, che ora era completamente avvolta in un sonno profondo. Non si sentiva più Ruby Evans, la giornalista sempre a caccia della verità, ma soltanto una donna assorbita dal turbamento di un altro essere umano. 

Il navigatore segnalò l’arrivo a destinazione a casa di Diana, e Ruby cercò di posteggiare delicatamente la macchina.
“Diana? Diana, si svegli…” le scosse leggermente una spalla.
La donna vide Ruby al posto di guida e sul momento non riuscì a capire, poi razionalizzò.
“Cazzo…”
“Direi che a me non resta che chiamare un taxi…ci aggiorniamo domani!” sorrise.
“No…no. È tardissimo. E poi siamo parecchio distanti, ti faresti prosciugare il portafogli per nulla. Domani ti riaccompagno in ufficio.”
“Non mi sembra il caso di disturbarla.”
“Nessun disturbo, sali da me.”

L’appartamento di Diana era modesto ma accogliente. Ciò che spiccava sopra ogni cosa, erano le diverse librerie posizionate in più punti dell’alloggio e lampade da parete dalla luminosità soffusa che sembravano mascherare l’ambiente circostante.
Ruby notò che alcuni portafoto erano rivolti a faccia in giù e che il soggiorno presentava una confusione tutto sommato “ordinata”: sul divano c’erano diversi vestiti piegati male ma sicuramente puliti, sul tavolino accanto era appoggiato un bicchiere di vino mezzo pieno, un notebook con adagiati sopra un discreto numero di fogli stampati.
“Mi dispiace per il disordine, sono desolata. Non pensavo avrei avuto ospiti.” disse sorridendo con amarezza.
Diana stava ripulendo il divano, e Ruby per non stare con le mani in mano si avvicinò per aiutarla, notando che tra i vestiti ce ne erano alcuni che sicuramente non appartenevano alla donna.
“Questi li prendo io.” si affrettò Diana, che quasi scappò verso una delle camere con la porta socchiusa, per poi bloccarsi e andare verso la propria camera da letto. Ruby notò immediatamente, ma preferì non sondare il terreno per il momento.
“D’accordo…mi sembra ovvio di non esserle gradita nonostante l’invito.”
Diana si girò verso Ruby con ancora i vestiti in mano.
“Puoi anche smetterla con questi convenevoli e darmi del tu.”
“E allora dimmi cosa ti è successo!”
“Perché, non lo sai? Ti sarai già informata, no?”
“Mi prendi in giro? Cosa credi che abbia trovato?”
“Anche troppo!” Diana diede una leggera spinta a Ruby dandole le spalle, ma non riuscì a fare più passi del dovuto che la donna batté una mano contro la porta della camera, che di riflesso si aprì.
Ciò che si presentò era chiaramente la stanza di un’adolescente.
“Chi vive con te? O meglio, viveva?”
Diana lasciò di riflesso cadere i vestiti, poi portò entrambe le mani sul viso: stava piangendo trattenendone i singhiozzi. Non voleva apparire debole verso chi, alla fine, era solo una sconosciuta.
“La mia Noa…”
“Quindi è lei la prima vittima che è stata trovata vicino a Central Park…era tua figlia…”

CONTINUA…